Sull’altare Padre Tirayr Hakobyan, 34 anni, guida la comunità della Chiesa Apostolica Armena intitolata ai Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Sulla pala, l’immagine di una Madonna con bambino in abito tradizionale (foto Duilio Piaggesi / Fotogramma)
Ricominciamo dall’uva benedetta

Un rito antico replicato come simbolo di fertilità e speranza segna il ritorno delle funzioni nella comunità di Città Studi Una presenza importante fin dai primi anni del Novecento

Corriere della Sera (Bergamo)13 Sep 2020Khachar, Silvia Calvi

Piccolina ma con un primato: quella degli armeni è una delle comunità straniere che risiedono da più tempo a Milano. Esattamente dal 1915, anno della diaspora causata dal Genocidio per mano ottomana. Le famiglie scampate al massacro e agli arresti arrivarono via mare a Venezia disperdendosi poi tra l’Europa e il nostro Paese: Bari, Roma, Torino e, soprattutto, Milano. Ad attrarre commercianti di tessuti e tappeti, ingegneri, chimici e medici erano le opportunità di lavoro e di studio. «In realtà il popolo armeno ha avuto rapporti commerciali e culturali con l’Italia da sempre, fin dall’età romana e nel medioevo: alcune chiese armene risalgono al X-XI secolo, come quella famosissima di San Gregorio a Napoli. Ma è nei primi anni del Novecento che avviene una vera immigrazione», spiega padre Tirayr Hakobyan, il giovane sacerdote della Chiesa di Milano. «Oggi qui vivono circa 1.000 famiglie, provenienti soprattutto dalla Turchia e dalla Libia che, da generazioni, hanno ottenuto la cittadinanza italiana».

A fare da collante, la piccola Chiesa Apostolica di via Jommelli, a città Studi, dedicata ai Santi Quaranta Martiri di Sebaste. Una delle poche chiese armene sorte in Europa che rispetti lo stile architettonico tradizionale: pianta a croce greca e cupola conica. Un luogo di culto, di memoria (all’esterno un il tradizionale cippo funerario scolpito, ricorda il Genocidio) e di festa. Padre Tirayr ci accompagna in chiesa. Dietro il sipario di velluto amaranto che normalmente lo protegge, un piccolo altare in marmo bianco e nero colpisce per la semplicità. Al centro domina l’immagine di una Madonna in abito tradizionale con bambino in braccio, più in basso altri quadretti sacri e ai lati due ampolle con i beccucci a forma di colomba: contengono l’olio consacrato che viene usato per il rito del battesimo. Un sacramento che, per gli armeni, ne contiene altri tre: comunione, cresima ed estrema unzione. «La nostra storia dolorosa ha portato a concentrare più sacramenti in uno», spiega il sacerdote andando a prendere la veste nera, culminante in un cappuccio a punta, il pastorale e la croce, per mostrarci parte dell’abito che il sacerdote indossa durante la messa. Un rito molto lungo e ricco (dura circa 2 ore) che ricorda quello cattolico preconciliare, con il sacerdote che dà le spalle ai fedeli.

«Dopo tanti mesi a distanza riprendiamo finalmente le celebrazioni in presenza con la benedizione dell’uva, rito tradizionale del giorno dell’Assunzione e che vogliamo replicare come simbolo di fertilità e di speranza». Padre Tirayr, 34 anni e una vita divisa tra la parrocchia di Milano e Roma dove va per motivi di studio è un rappresentante dell’alto clero armeno: celibe e destinato a ricoprire incarichi di responsabilità. Nella Chiesa armena esistono infatti anche i sacerdoti sposati, impegnati nelle parrocchie con incarichi differenti. E le donne? Non esistono vere e proprie suore ma una piccola congregazione religiosa femminile. «Ma le cose stanno cambiando. Negli ultimi anni all’interno della nostra Chiesa ci stiamo aprendo a un rinnovamento che possa farci lasciare alle spalle una tradizione un po’ maschilista».

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